L’usanza consueta, in alcune culture,
(Dionisio-Bacco) di un eccessivo consumo di vino, aveva la sua spiegazione nel
culto, in quanto provocava l’unione con la divinità dell’ebbrezza. Il vino
doveva spezzare ogni incantesimo, smascherare le bugie o menzogne (in vino veritas)
che non debbono albergare nel cuore del saggio (noi Massoni lavoriamo a questo
fine). Anche i defunti potevano gustarlo, se lo si versava a terra
disperdendolo (libagione).
         Come “sangue dell’uva” il
vino fu spesso visto in un rapporto simbolico con il sangue e non soltanto nel
Cristianesimo. Esso, infatti, poteva anche sostituire il sacrificio cruento nel
culto dei morti.
         Nella simbologia cristiana,
il sangue di Cristo, occupa una posizione centrale          (Carne e Sangue corrispondono a Pane e
Vino). Nelle raffigurazioni della crocifissione si possono vedere Angeli che
raccolgono il sangue dentro i calici, ricollegati simbolicamente al leggendario
GRAAL (come certamente sapete, è indicato quale recipiente che Cristo adoperò
in occasione della cena eucaristica ed in cui, poco dopo, venne raccolto il suo
sangue). Il GRAAL così caro ai cavalieri prescelti da Re Artù per formare la
Tavola Rotonda ed
all’ordine cavalleresco dei Templari, al quale siamo
storicamente legati.
Durante le NOZZE DI CANA, il rilievo non è dato al festeggiato ma a Gesù
che, alla fine, attraverso l’allusiva dichiarazione del maestro di tavola,
viene ringraziato per aver provveduto al vino buono fino alla fine
del  banchetto.
         Molte sono le teorie sulla
storia e l’espansione della vite (come simbologia, da molti popoli considerata
l’albero della vita) e della vitivinicoltura; le più accreditate ne individuano
l’origine organizzata nell’Asia minore, anche se reperti archeologici,
rinvenuti  in molti insediamenti
preistorici, confermano che le GENTI ITALICHE facevano uso sia di uva che di vino,
ben prima che la Bibbia fosse scritta.
Dove è doveroso segnalare la citazione nel canto XXX dell’ECCLESIASTICO:
“Date il vino a quelli che sono con l’animo amaro, acciocché bevano e
dimentichino     la loro miseria e non
abbiano più memoria del loro dolore”.
         I reperti archeologici
evidenziano una forte influenza degli Etruschi a partire dall’ VIII secolo a.C.
Le colonizzazioni Etrusca e Greca portarono nuove tecniche e nuovi vitigni,
lo fecero con numerose varietà, scelte in funzione di ubicazione e clima, così
che Plinio il Vecchio, arriverà a catalogarne svariate decine, da tavola e da
vino.
Da tanta ricchezza di vitigni e di esposizioni è facile arguire che i
fini intenditori potevano contare su una ricca scelta. Dalla lettura di Plinio
il vecchio, senza la cui enciclopedia (arrivata integra fino a noi) vivremmo in
grave avarizia di informazioni, il mercato offriva pressappoco duecento vini di
grande qualità.
Circa quanto le nostre attuali migliori D.O.C.
         Riguardo alla simbologia e
all’albero della Vita, in estrema sintesi, “un simbolo nasce là dove ad un dato
reale, un numero, una parola, un segno, una pianta, un’immagine, un
edificio, in breve, ad una cosa, si conferisce un senso più profondo di quanto non
possieda nella sua mera sussistenza reale, quando a queste cose ed alle loro
forme si attribuisce una maggiore dignità ed un più alto valore di quanto ad
esse non spetti propriamente, quando alla cosa esteriore si dà un più profondo
valore morale o spirituale, rendendola così immagine di processi spirituali non
altrimenti rappresentabili. 
Giotto
(c. 1303-1305) Padova – Cappella degli Scrovegni
 
Le «radici»
dell’acquavite sono … nel cielo.
Oggi la chiamiamo grappa ma all’origine era la quinta essentia (in
analogia con il quinto elemento aristotelico, componente dei corpi celesti)  e poi, compiendosi il viaggio della grappa
dalle suggestioni alchemiche e metafisiche a farmaco, alimento e bene
voluttuario, diventò aqua vitae, aqua ardens, anima vini, acquavite e infine
grappa.
Per la precisione, oggi si distinguono:
Distillato di Vino (Brandi), Distillato di vinacce (Grappa), Distillato
d’Uva (Acquavite).
La fisica aristotelica era fondata sulla teoria delle qualità, sulla
mescolanza cioè dei quattro elementi fondamentali  terra, aria, acqua, fuoco, che
produceva qualità opposte come freddo/caldo, umido/secco; questi
principi erano alla base della teoria e della pratica medica. E inoltre secondo
la fisica e la cosmologia aristotelica l’universo era diviso in mondo sublunare
(corruttibile e dove il moto era rettilineo) e mondo delle sfere celesti
(incorruttibile e animato da moto circolare, in cui era presente l’etere o
quinta essenza ingenerabile, incorruttibile e inalterabile).
A causa del fallimento del programma di trasmutazione dei metalli in oro,
la ricerca alchemica si indirizzò, dalla fine del XIII al XIV secolo, verso la
distillazione. Agli occhi degli alchimisti il distillato di vino presentava
sorprendenti caratteristiche simili alla quinta essentia: era trasparente come
il cielo, incorruttibile e inalterabile.
Con l’introduzione della cultura araba nel mondo latino, nel XII secolo,
giunsero anche opere di molti autori del pensiero classico non ancora tradotte;
fra cui testi sconosciuti di Aristotele come la Fisica, il De Generatione et
Corruptione e altre).
Giunsero anche ai centri di traduzione presso le corti arabe di Spagna e
Sicilia, testi alchemici, il cui ingresso contribuì alla valorizzazione del
bagaglio tecnico-sperimentale e del legame tra scienza e manualità. La novitas
dell’alchimia suscitò curiosità e vivo interesse tra gli studiosi, ma ben
presto entrò in conflitto con il sapere scolastico.
Il programma dell’alchimia prevedeva un obiettivo elevato e ambizioso:
quello di raggiungere, attraverso l’arte, la perfezione che per i metalli è
l’oro, per l’uomo la longevità, poi l’immortalità, e infine la redenzione. Per
una serie di motivi questo programma non fu realizzato e l’apprezzamento
iniziale, nel corso dei decenni, si tramutò in discredito, derisione,
persecuzione. Gli alchimisti da ministri (simili a Dio) e «gubernatores
naturae, taciti et secreti, umili e pii», divennero nell’immaginario popolare,
sulla spinta delle condanne di papi e inquisitori, adulteratores et latrones e
ancora, sophistae et impostore, trufadores, multiplicatores, delusores,
pseudophilosophi.
Il fallimento del loro programma spinse i filosofi alchimisti a
rifugiarsi in orizzonti visionari utopici e profetici non estranei d’altra
parte a visioni catastrofiche e apocalittiche e a sentimenti diffusi di attesa
di una grande renovatio.
Agli inizi dell’alchimia latina, nel XII secolo, il problema della
trasmutazione era strettamente intrecciato con alcuni aspetti della filosofia
naturale e soprattutto col naturalismo aristotelico e quindi costituì un punto
cruciale della ricerca e definizione di uno statuto epistemologico
dell’alchimia stessa.
Questa fase che potrebbe essere definita «metallurgica» si estenderebbe
fino al 1275 circa.
Un ruolo di conciliazione e di adattamento delle tesi alchemiche al
quadro epistemologico scolastico fu svolto soprattutto da Ruggero Bacone
il quale, partendo da una critica al vecchio assetto dell’enciclopedia
scolastica, pone l’alchimia, come teoria della materia e della generazione,
sullo stesso piano della filosofia naturale. Bacone inoltre, in conformità col
suo principio secondo cui la «veritas» del sapere va accompagnata alla
«utilitas», considera l’oro alchemico più pregiato di quello delle miniere e ne
apprezza le qualità terapeutiche; infatti se assunto come oro potabile è un
farmaco equilibratissimo atto a favorire la prolongatio vitae.
Con Bacone quindi fa ingresso nella tematica della trasmutazione quell’aspetto medico-farmacologico dell’elisir o lapis o «medicina».
Una vera e propria svolta farmacologica si ebbe in conseguenza di una
lunga crisi dell’alchimia che iniziatasi alla fine del XIII secolo, fu
determinata dalla disarticolazione del rapporto teoria/pratica dovuta a
un’eccedenza di dati sperimentali rispetto alle teorie disponibili. Ma un altro
fattore fu più determinante: alla lunga l’insuccesso nella fabbricazione
dell’oro artificiale, la più grande promessa degli alchimisti, produsse
delusione e diffidenza; di qui l’accusa principale rivolta
all’alchimia di
essere un mendacium.
L’alchimia quindi si pone alla ricerca di un nuovo statuto epistemologico
in una nuova fase caratterizzata
dall’introduzione di elementi soprannaturali
dovuti
all’intuizione e alla rivelazione. Questa tendenza, attraverso gli
scritti attribuiti a Raimondo Lullo e ad Arnaldo da Villanova, si concluderà
verso la metà del XIV secolo, con
Giovanni da Rupescissa, un monaco
francescano alverniate, col ricorso a un nuovo modello cosmologico, quello
cristologico. Le trasformazioni di elementi naturali provocate dall’alchimia
sono concepite in analogia con le sofferenze e la resurrezione di Cristo Dio e
Uomo. E lo statuto epistemologico sarebbe così fondato sul dogma della
trasfigurazione, della resurrezione, della vita eterna.
La ripresa
dell’alchimia si verifica quindi in ambito medico farmacologico grazie al
successo e alla diffusione delle tecniche di distillazione, soprattutto
dell’alcol ottenuto dalla distillazione del vino. Per le sue proprietà,
quest’acqua ardente e volatile non s’integrava nello schema dei quattro elementi;
non essendo né terra, né acqua, né aria, né fuoco; gli alchimisti ricorsero al
concetto aristotelico di quinta essentia, quinto elemento, materia dei corpi
celesti.
Una certa indeterminatezza epistemologica rendeva non falsificabile
l’idea del farmaco alchemico: se la «medicina» non funzionava e l’ammalato
moriva, era sempre possibile appellarsi alla divina volontà! Era molto più
difficile invece giustificare l’insuccesso nella fabbricazione dell’oro
artificiale.

La concezione aristotelica dell’universo, che vede al
centro i quattro cerchi sublunari corrispondenti a terra, acqua, aria, e fuoco,
al di sopra dei quali ruotano le sfere planetarie di sostanza eterica.

Il Liber de consideratione quintae essentiae (1351 ca.) di Giovanni da
Rupescissa, scritto durante un periodo di prigionia ad Avignone, è pervaso da
una sorta di ispirazione divina.
Ma al di là delle intenzioni di Giovanni, l’acquavite era già apprezzata
come alimento e bene voluttuario. La «quinta essenza» pur mantenendo il
doppio significato di prodotto filosofico-spirituale e di alimento, si diffuse
a livello di consumo sociale come bevanda.
E come non citare
Dante ?
Nel Canto XIV dell’Inferno il Poeta fa capire che le lacrime avrebbero
anche una funzione iniziatica perché con la loro evaporazione spegnerebbero le
fiamme del girone permettendo il passaggio del pellegrino. In definitiva quindi
il pianto del veglio (Statua del Grande Vecchio che a Creta guarda Roma)
sarebbe come un’allegoria del peccato, che nasce dagli uomini e punisce gli
uomini stessi attraverso i fiumi infernali. Dante ha
bisogno di qualche altra spiegazione e chiede a Virgilio perché se
questo fiume giunge dal mondo    dei vivi
lo incontrano solo ora e il poeta latino risponde che fino ad allora essi sono
scesi sempre verso sinistra, ma ancora non hanno fatto un giro completo. Poi
Dante chiede dove siano il Flegetonte e il Lete, non citati prima, e il maestro
risponde che il bollore dell’acqua del fiume rosso avrebbe già dovuto essere di
risposta alla sua domanda; mentre per quanto riguarda il Lete Dante lo vedrà
sì, ma fuori dalla fossa infernale perché è il luogo dove “l’anime vanno a
lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa” cioè in Purgatorio.
Poi Virgilio taglia corto e incita Dante ad allontanarsi dal bosco
affinché lo segua sui margini, che fanno la “via“, e dove il
fuoco non attacca perché sopra di essi le fiamme (vapor) si spengono. 
                                           Giancarlo Bertollini

Bibliografia:
°      La BIBBIA
°      Da Ricerche sul WEB
°      TRECCANI – Enciclopedia
Italiana
°      Enciclopedia dei Simboli  (Garzanti)
°      Da Lavori del Fr Giancarlo Bertollini 

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